Eduardo Cosenza

Rerum Cotidianorum Fragmenta

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Biblioteca febbrile, i cui volumi precari corrono il rischio di incessante di mutarsi in altri, e che tutto affermano, negano e confondono come una divinità febbrile

13 novembre 2021, Bologna

Oggi alla Lidl una ragazza ha urtato accidentalmente contro una decina di sacchi di terriccio, facendoli cadere per terra. Alla vista di questa scena, immaginando che i sacchi fossero pesanti, mi sono avvicinato per aiutare la ragazza in questione a raccoglierli, ma questa, forse neanche notando la mia intenzione, si è allontanata con indifferenza rispetto all’accaduto. Dunque mi sono ritrovato a raccogliere questi pesanti sacchi di terriccio da solo, mentre gli altri clienti del supermercato continuavano indifferenti a scegliere i prodotti dagli scaffali. I pochi passanti che mi hanno concesso una rapida occhiata, dal momento che guardare attentamente senza agire è troppo persino per la loro coscienza, sembravano quasi volermi giudicare: la colpa del terribile misfatto è traslata a me, l’unico che ha sacrificato trenta inestimabili secondi per sgombrare la corsia. La spontaneità del mio insignificante, ma necessario, gesto, affiancata all’indifferenza tanto della ragazza quanto dei meschini passanti, mi ha fatto immediatamente pensare alla copertina dell’album di Rino Gaetano Mio fratello è figlio unico, in cui un cane, personificazione della solitudine, è rappresentato al centro di un fascio di luce. Successivamente, uscendo dal supermercato, mi sono venute in mente i versi di Escluso il cane, sempre di Rino Gaetano, in cui l’autore afferma che “tutti gli altri son cattivi, pressoché poco disponibili […] Nei loro occhi c’è un cannone, è un elisir di riflessione”.

7 dicembre 2022, Bologna

Tutta la nostra esistenza, o meglio la volontà che ci spinge a viverla, può essere vista come un eterno tentativo di esprimere il proprio Sè. Con questo termine intendo riferirmi a qualcosa di più profondo e viscerale della semplice personalità. Infatti esprimere il Sè equivale a realizzarlo e attuarlo all'interno dell'orizzonte dell'Altro. Dunque alla base della propria realizzazione sta la comunicazione, intesa nel senso più generale possibile, e quindi l'espressione. Ora, accettando questa premessa, mi risulta facile individuare un grande male della nostra società, cioè l'omologazione di molti mezzi espressivi. In una società nella quale il vestiario, l'espressione linguistica e la fruizione artistica risultano tra i caduti nella battaglia contro l'omologazione, rimangono pochi e impensabili spazi nei quali poter attuare il proprio Sè. Qualche notte fa, durante un ripetitivo e omologato ritorno a casa da lavoro (stessa strada, stessi sguardi incrociati, stessa musica e talvolta stessi pensieri) ho riflettuto sulla bellezza della camminata come tratto distintivo, personale. L'andamento della nostra camminnata mi affascina in quanto attributo completamente nostro, ma votato alla condivisione con l'altro, dal momento che per noi non è frutto di una riflessione, quindi è istintivo, proprio come il respiro, però allo stesso tempo per l'Altro è qualcosa di notabile e confrontabile facilmente con altri andamenti e di conseguenza giudicabile.Estremizzando questa riflessione a buon mercato immagino un futuro distopico nel quale gli umani sono distinguibili dagli androidi non osservando i loro occhi, seguendo l'esempio dell'ispettore Deckard, ma analizzando la loro camminata, come se questa fosse in grado di comunicare la "presenza" dell'Altro, il più grande conforto possibile alla nostra esistenza.

25 gennaio 2023, Bologna

Domani lavoro di pomeriggio e stasera non ho fatto nulla di "unico e di grande", quindi, come mio solito, combatto l'angoscia esistenziale scegliendo come arma un film già visto. La grande bellezza (forse il mio inconscio possiede un senso dell'umorismo: almeno lui!) mi ha sempre incuriosito per la divisione di opinioni che crea negli spettatori, lasciando poco spazio a opinioni medie. Rifletto su questo aspetto. E se fosse questo a rendere il film un capolavoro? Mi spiego meglio. La mia interpretazione attuale del film, che vede il titolo e il monologo finale come fondamenta, può essere riassunta così: non esiste quella Grande bellezza che Jep insegue per tutta la vita, ma, dopo aver accettato la miseria dell'esistenza, rappresentata dalla fede (la suora) e dall'amore perduto, non ci rimane altro che godere con malinconia di quegli "sparuti sprazzi di bellezza" (notare la bellezza sonora di questa allitterazione). La Felicità come concetto tondo è un'illusione, un miraggio il cui inseguimento può portare alla deriva. Questa constatazione non può fare altro che turbare e infastidire lo spettatore: chi comprende appieno il significato dell'opera d'arte non può fare a meno di rigettarla. Al contrario coloro che elogiano indiscriminatamente questo film, godendo per la sua visione, possono farlo solo dal momento che non hanno colto questo messaggio. Sorrentino, e qui sta il suo capolavoro, riesce a scindere opera artistica e messaggio veicolato in essa, obbligandoci a scegliere: l'illusione del film o la cruda realtà del messaggio? Oppure, e non mi sento di escludere questa possibilità, avete letto un Delirio III di Rimbaud e io sono solo un adolescente in ritardo, assonnato, ma con troppi pensieri per la testa, mai quelli giusti.

16 maggio 2024, Bologna

che cos'è l'orlo della follia?

sogni nei quali

giorni in cui

tutto ciò per

basterebbe solo una fine senza inizio